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Non avevo raggiunto Itaca ma forse ero tornato sulla terra.


Era stato un viaggio così faticoso che quando, finalmente, l'aereo atterrò a Freetown, alle nove di sera, non mi parve vero. Riandavo alle agghiaccianti dieci e più ore di volo e mi sembrava di aver coperto distanze siderali. Quest'impressione diventò incredibilmente concreta quando, messo piede a terra, mi accorsi di essere sbarcato su un altro pianeta.

Una luna remota in cielo sembrava osservarmi con ironia come un unico, immenso occhio bianco. Vampate di calore soffocante salivano dalla pista di argento umido dell'aeroporto e da una sorte di caligine gessosa che ovattava l'aria. Ero a disagio nel sudore e per la perdita del senso dell'orientamento. Con le orecchie ancora tappate per effetto della variazione altimetrica, non percepivo che brusii lontani. Le poche persone che erano sbarcate con me, s'erano affrettate verso la stazione con i passaporti pronti e i formulari già riempiti. Era come se non esistessi per nessuno. Qualcuno mi aveva addirittura investito con la sua sacca e, girandosi m'aveva mostrato una faccia attraversata dalla cicatrice di una smorfia. Non era un sorriso. Evidentemente continuava a non vedermi.

Nella stazione l'afa e l'odore di muffa mi diedero le vertigini. Addetti della dogana, della polizia di frontiera, dell'immigrazione, della sanità e chissà cos'altro, erano ad attendermi, impazienti come aguzzini e pronti alle sevizie di rito. Passai attraverso i più scrupolosi filtri dei loro controlli, disposti non per vigilare ma per intimorire, ma verificai che anche qui dove ero sbarcato, il vile danaro risolve i problemi delle lungaggini procedurali tipici di ogni frontiera.

Poi avevo incontrato Amadou e, ancora una volta, non ebbi dubbi di essere sbarcato su un altro pianeta. Perché potessi identificarlo, teneva sospeso al collo come un condannato alla crocifissione, una tabella di legno su cui figurava il mio cognome, scritto alla francese, Rousseau, con caratteri sbilenchi, extraterrestri.

M'ero fatto riconoscere da lontano con un cenno della mano. Amadou dal canto suo aveva sollevato il labbro superiore in una smorfia leporina. Il suo benvenuto fu il sorriso di tenebra che gli si era formato sulle labbra e che aveva schiuso una chiostra nera di denti, accuratamente limati, a sega, come quelli di un pescecane. Provai un brivido. Ricordai che anche sulla terra, da qualche parte, forse nell'arcipelago delle Touamotou o nell'isola di Kalimantan, esistevano fino a poco tempo fa antropofagi che si limavano i denti in quel modo credendo di rendere così più efficace la presa e la masticazione. Amadou mi aveva valutato soddisfatto sgranando due occhi bovini dove il poco nero della pupilla annegava nel bianco arrossato dell'immensa sclerotica.

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