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Non avevo raggiunto Itaca ma forse ero tornato sulla terra [2]


La stanchezza del viaggio aveva a questo punto lasciato spazio ad una sottile preoccupazione. Avvertivo inconsciamente che le peripezie non erano finite. Quando tutte le formalità furono finalmente completate Amadou mi venne incontro. Mi strizzò la mano in una stretta poderosa e, abbrancato il mio tormentato bagaglio, m'indicò l'uscita dell'aeroporto con un cenno brusco del capo.

Fuori, nonostante l'ora tarda, c'era una confusione indescrivibile: venditori di tutte le cianfrusaglie più esotiche, accosciati sui bordi scheggiati dei marciapiedi; mendicanti, storpi delle deformità più assurde, fors'anche provocate ad arte, come mi era stato detto, per meglio sollecitare la pietà e, infine, qualche raro europeo stralunato, piovuto dal cielo come me.

Facendosi largo a calci e gomitate, Amadou che aveva ora preso la mia valigia sotto un braccio e mi tirava per la camicia con l'altro, mi aveva fatto strada fino al luogo dove ci attendeva un'anacronistica auto. Era parcheggiata in una pozza di liquami a poca distanza da un gregge di pecore smagrite che sfumava nell'oscurità. Il nerboruto autista che ci attendeva era scalzo e sbracato. Mi aprì la portiera posteriore allungando una mano, tentacolare, come un grappolo di banane. Sentii al tatto il sedile scivoloso. Mi accoccolai riducendomi al minimo. Amadou si sistemò dall'altro lato, la valigia in mezzo, come un cane addormentato. Mi accorsi allora che il fondo della vettura non esisteva più, come del resto lo schienale del sedile cui era subentrata una tavola di legno. Mancava pure la portiera anteriore, lato pilota, il tettuccio sostituito da una struttura di compensato e i vetri. Non ci feci caso. Faceva caldo.

Partimmo nel rumore assordante di un motore che si mostrava fedele nonostante l'evidente mutilazione dello scarico e l'assenza di un paio di candele. Dovevo far bene attenzione a non muovere i piedi se non volevo vedermeli sottratti dal morso dei ciottoli della strada che scorreva sotto di me anche se non riuscivo a vederla. Giungemmo infine ad un imbarcadero. Mancava poco alla mezzanotte.

Il traghetto che ci avrebbe trasportato sulla sponda opposta del fiume sulla quale sorgeva la città di Freetown, era ormeggiato ad una struttura di quello che un tempo era stato ferro ma che ora solo la ruggine teneva unita. Ho detto traghetto, ma si tratta di un'indicazione. In realtà si trattava di una massa scura, con una capanna di legno a prora ad indicare il posto di pilotaggio e un ammasso indescrivibile di cesti, casse, stie, pecore che occupavano alla rinfusa lo spazio a poppavia. Il tutto era marcato da un umanissimo odore di sporco.

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