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Sierra Leone: bambini-soldato, la sfida dei missionari

Sierra Leone: bambini-soldato, la sfida dei missionari


"Un Paese senza figli, o quando questi sono mutilati nel corpo, negli affetti e nella vita sociale, non può pensare davvero di essere in pace. Ecco perché la liberazione e il recupero alla vita civile e familiare degli ex bambini-soldato rappresenta un fattore irrinunciabile che può contribuire alla costruzione di una Sierra Leone nuova, in pace e lanciata verso un futuro di speranza". Il dramma dei "piccoli soldati" non poteva lasciare indifferente il vescovo di Freetown, mons. Giorgio Biguzzi. Una piaga, quella dei bambini-soldato, che è destinata a incidere sul futuro del Paese. Perché senza i giovani la Sierra Leone non può avere speranza.

Combattenti in erba, un dramma per il futuro
Non esistono dati ufficiali e neppure stime sui ragazzi soldato impiegati in Sierra Leone. Si sa che sono migliaia e che vengono arruolati da entrambe le parti in conflitto. Molti sono costretti. Altri invece chiedono di essere arruolati perché, nelle fila di un esercito, credono di trovare sicurezza e, soprattutto, un sostentamento. Per tutti gli effetti sono devastanti. Sia sul piano fisico, sia su quello psicologico. Per mandarli a combattere gli adulti li drogano, creando in loro una dipendenza dagli stupefacenti che difficilmente perdono dopo la guerra. Ma, soprattutto, li usano come piccoli schiavi da impiegare nei lavori pesanti e nelle pratiche sessuali più degradanti.

Il Family Homes Movement
In Sierra Leone nel 1985 è nato, per iniziativa di un missionario saveriano, p. Giuseppe Berton, il Family Homes Movement (Fhm) un'organizzazione che opera in collaborazione con l'Unicef e il Ministero delle Opere Sociali ed è impegnata nella rieducazione dei bambini-soldato e dei bambini profughi. L'Fhm è strutturata nel "Centro di accoglienza San Michele" e in varie "Case famiglia". Il Centro di accoglienza, che ha sede a Lakka, può ospitare fino a 250 ragazzi che vivono in gruppi familiari di 6-10 bambini sotto la responsabilità di una coppia. Al centro ricevono assistenza medica, un'istruzione di base e imparano i primi rudimenti di un mestiere. Ma qui rimangono per un periodo breve, sufficiente a reinserirsi nella società e a ricercare i genitori o eventuali parenti. "Questi ragazzi - spiega p. Stefano Berton, saveriano, fratello di p. Giuseppe e suo "portavoce" in Italia - non possono essere restituiti subito alle famiglie. L'esperienza della guerra, la droga, le violenze ne hanno fatto dei disadattati incapaci di concepire i rapporti con gli altri se non in termini di violenza. Il programma avviato da mio fratello punta a restituire loro l'infanzia e a prepararli al futuro. Un compito portato avanti fra mille difficoltà tra le quali la diffidenza della gente che abita nei pressi del centro".
Accoglienza alternativa
Per i ragazzi che non hanno parenti è stato creato un sistema di "accoglienza alternativa". Questo sistema prevede l'affidamento del ragazzo a una famiglia locale che lo ospita. Il ragazzo svolge contemporaneamente un apprendistato presso un artigiano che si impegna a mantenere e a istruire l'apprendista e che riceve come compenso un miglioramento del luogo di lavoro. Se il ragazzo è così piccolo da non poter essere avviato al lavoro, viene accolto in case famiglia create da coppie di volontari che si prendono cura di gruppi dai 6 ai 9 ragazzi. "Il modello adottato dall'Fhm - osserva p. Stefano - è quello della famiglia allargata africana. Nuclei ampi, nei quali è forte il senso di solidarietà. I ragazzi con i primi guadagni del loro lavoro danno una mano in casa. E la famiglia li aiuta a crescere nel modo più sereno possibile".

Il bilancio
Il bilancio dell'iniziativa è positivo. Tra gennaio e ottobre 2000, il "Centro San Michele" ha accolto 550 bambini: 196 sono poi stati riaccolti nelle loro famiglie, 83 sono stati trasferiti ad altri centri di accoglienza vicino al luogo di provenienza, 183 sono stati affidati all'"accoglienza alternativa" e 83 sono ancora nel Centro. Solo 5 sono scappati. "Il Centro - spiega p. Stefano - riceve aiuti dal Governo, dall'Unicef e da privati. Ma riesce in parte anche ad autofinanziarsi. Sono state acquistate tre barche da pesca. I proventi della vendita del pesce pescato vengono poi ripartiti tra il centro, il villaggio e in ammortamento per ripagare il prezzo delle barche che poi rimarranno ai pescatori".

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